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In un recente post, Franz, ha portato alla ribalta un argomento interessante, ovvero come la polisemica della parola possa far incappare in fraintendimenti a vario titolo. La sua argomentazione, mi ha riportato alla mente un episodio capitatomi in ambito lavorativo. Ve lo riporto qui di seguito.

Fra i vari lavori che svolgo per sbarcare il lunario (in attesa di mettere la testa a posto e trovarmi un lavoro serio o un uomo che mi mantenga, come dice mio padre), c’è quello di correttrice di bozze e di editor. Qualche tempo fa, nel bel mezzo della correzione del romanzo di un autore che conosco personalmente (tipo aitante, avvocato di grido che vive in perfetto equilibrio fra la vocazione per le missioni dell’OMG/Operazione Mato Grosso, l’esser pieno di soldi, pianger miseria e le sue velleità da romanziere), mi sono imbattuta – in riferimento all’ansia di un genitore nei confronti del figlio – nella seguente frase:

«Ci sono momenti nella vita di un genitore in cui è combattuto fra l’istinto di protezione e quello di salvaguardare l’Eros del figlio»

Perplessa gli chiedo di spiegarmi cosa intenda con una simile affermazione. Mi risponde che per “salvaguardare l’Eros del figlio” lui intende che un genitore deve farsi da parte per permettere al figlio di affrontare la Conoscenza della vita. A quel punto gli ho fatto presente che se il senso era quello, la frase posta in quel modo – senza nessuna spiegazione o riferimento al suo pensiero – restava piuttosto ostica da comprendere. Gli ho illustrato le possibili modifiche o spiegazioni da apportare, fermo restando che se avesse voluto la frase sarebbe rimasta così, io il mio dovere di editor e di rilevazione l’avevo fatto. Lui non ha mollato continuando a sostenere che Eros è sinonimo di Conoscenza. La discussione, a quel punto, ha iniziato a prendere una piega personale, nel senso che per lui era diventata una questione fondamentale convincermi che aveva ragione. Io – anche per andare avanti con il lavoro – volevo superare la querelle… ma lui puntualmente tornava sull’argomento. A quel punto gli dissi che si stava perdendo tempo e affrontare la questione di cosa uno intende a titolo personale per Eros non riguardava il romanzo, ma era al massimo argomento da discutere in altra occasione. Ne seguì questa conversazione:

LUI «Allora vuol dire che ne parleremo a lavoro finito davanti a un buon caffè»

IO «Va bene, vada per il caffè»

LUI «Un caffè corretto…»

IO  «Io lo prendo classico, se lo vuoi corretto fa pure»

LUI «Intendo un caffè corretto all’Eros, poi stabiliamo se all’Eros come intendo io o… come lo intendi tu…ora scappo in tribunale, a dopo…»

Risata (sua), telefonata chiusa e perplessità (mia).

In tutta onestà non sapevo come prendere la questione e mi sono convinta stesse facendo il deficiente e si trattasse di una battuta. Finito il lavoro, libro pubblicato (con la frase corretta), lui inizia a inviarmi sporadicamente delle e-mail in cui parlava di tutto tranne che del libro. Mi raccontava cose che gli capitavano, discutevamo dei massimi sistemi… e lui ogni tanto tirava fuori la questione dell’Eros e che dovevamo vederci per discuterne. Io lo prendevo in giro perchè stava ancora pensando a quella cosa. Non ho mai pensato a lui come preda o uomo papabile per me. Ve lo direi… non mi costa nulla. Ho risposto alle sue mail assecondando il tono che di volta in volta prendevano… scherzavo quando si scherzava, parlavo seriamente quando mi veniva esposto un problema, esprimevo le mie idee quando era richiesto. Un giorno, dopo un breve periodo di latitanza, mi è arrivata una sua mail in cui mi descriveva come persona intrigante, diceva come la mia testa gli piacesse e quanto fosse a suo agio a parlare con me, ma doveva starmi lontano perché io non ero la donna per lui in quanto non rispecchiavo il suo ideale fisico. Sono rimasta di sasso, sorpresa da quanto leggevo. Non tanto per la cafonata gratuita sull’aspetto fisico (de gustibus) quanto su tutto il resto. Non c’è stata una sola volta nel corso dei nostri contatti in cui si è parlato di me e di lui come potenziali persone che si piacciono, mai una volta che ci si sia detti di volersi vedere per motivi extra lavorativi (tolti i casi in cui lui tirava fuori la questione del caffè).

Mi sono chiesta spesso dove fosse l’errore (ammesso che di errore potesse parlarsi)… ho letto e riletto il nostro epistolario elettronico alla ricerca di una traccia sensibile del meccanismo inceppato. Niente è risaltato all’ermeneutica dei miei occhi.

La linguistica mi insegna che: la parola è polisemica, in quanto tale suscettibile di interpretazione e plasmabile dalla sensibilità dell’emittente e del ricevente. Il I assioma della comunicazione enuncia: non si può non comunicare. In sostanza, che piaccia o no, la parola una volta emessa comunica e ciò prevede che l’emittente sia consapevole che il messaggio emesso possa suscitare delle reazioni – non sempre prevedibili – nel ricevente e, per tanto, si assuma la responsabilità di ciò che dice.

Mi assumo le mie imperscrutabili responsabilità e continuo a parlare come voglio o come meglio posso.